Cento, o quasi

Chiedetemi quante volte sono andato a Roma negli ultimi 40 mesi. Risposta: mai. Chiedetemi quante cose ho proposto per la Calabria: cento. O quasi”

Non vado mai a Roma


Per carattere non amo il protagonismo, ma ci sono dei punti sui
quali mi va di marcare la differenza, magari senza troppo gridare,
ancora meglio: a bassa voce. Non vado mai a Roma, anche perché
non sono mai mancato ai lavori del consiglio e della commissione,
eppure sono sempre in movimento (qualcuno bonariamente
mi definisce “riminizzo”), conosco molto bene la provincia di
Cosenza e da quando sono presidente della commissione contro
la ‘ndrangheta ho preso a percorrere la regione in lungo e in
largo, partecipando a centinaia di incontri pubblici, preferendo
le zone calde e i paesi più critici dal punto di vista della legalità.
Non è nemmeno un ancoramento territoriale di stampo leghista,
tanto meno la cura del collegio tanto raccomandata dalla vecchia
politica.
Certo, sono presente nel mio paese, Castiglione Cosentino, dove
ho fatto il sindaco per molti anni, a Cosenza dove ho un ufficio
che chiamammo ironicamente alla francese “chez Magarò”, pure
per dire che era più una casa, un luogo di ascolto e di ospitalità,
piuttosto che una segreteria dedita alle promesse elettorali e al
collocamento. In ogni caso, non organizzo né partecipo a cene e
cenette. E la sera sono immancabilmente a casa, quella vera, con
la mia famiglia.
Dicevo, sono molti anni che non vado a Roma, perché
– contrariamente ad una prassi diffusa – non ho referenti romani,
non ho richieste (il più delle volte inconfessabili) da fare, non
ho da elemosinare posti di comando, piaceri da chiedere o da
intermediare. Da tempo non ho più nemmeno un partito di
riferimento. Ne ho avuto uno solo, il PSI, che i signori delle
tessere e più in generale personaggi che di socialista avevano
ben poco, mi hanno costretto ad abbandonare. Così mi è capitato
di continuare nel lavoro politico e nella buona amministrazione,
prima con Calabria Riformista, una lista di amici come me
sufficientemente delusi dalla partitocrazia, dall’imperversare
degli inetti e dei corrotti, poi nella Lista Scopelliti, sempre senza
aderire ad alcun partito.
Lungo questo percorso ho fatto quasi un centinaio di proposte,
tra provvedimenti amministrativi, leggi, emendamenti e mozioni.
Non tutte sono elencate in questo libricino, che ne raccoglie 83,
riguardanti temi urgenti, come il rinnovamento della pubblica
amministrazione, in particolare sotto il profilo della trasparenza,
la lotta alla ‘ndrangheta e il miglioramento della vita dei
calabresi – soprattutto delle fasce più deboli – nell’ambito della
sanità, dell’ambiente, del sociale.
Alla legalità accordo qualche priorità logica: come spiega bene
un anonimo funzionario indiano, “il fatto è che se non riesci a
governare un’area, allora quest’area non è tua”. Sappiamo tutti
che la corruzione, il malaffare, la malapolitica, l’illegalità, sono
oggi fenomeni diffusi che travalicano il nostro ambito regionale.
Ma come non tener conto della densità mafiosa, dei quasi 60
comuni sciolti per mafia che, sommati ai dati della disoccupazione
e agli altri indicatori socio-economici, dipingono una situazione
incancrenita e non più sostenibile? Per tornare al funzionario
indiano, credo sia ben difficile governare la Calabria. Non
sappiamo più di chi è.
Con sguardo retrospettivo noto che molti miei provvedimenti
e proposte di legge hanno anticipato temi poi trattati a livello
nazionale, come la riduzione del numero dei consiglieri,
la gestione della sanità da parte della politica, etc. Così ho
continuato a fare, forte di un buon ammonimento: non importa
dove ma cosa fai. Fare adesso, non pensando – come molti – a
rafforzare posizioni e correnti con l’unica pre-occupazione di venir
ricandidati e confermati. In tal senso già nel 2010 ho proposto di
limitare a due il numero delle consiliature consecutive.
Osservo da sempre e con preoccupazione il perenne rischio
epidemiologico, fatto di clientelismo, cencellismo e trasformismo.
È il morbo della vecchia politica, che continua ancora adesso, come
se non fosse successo nulla, come se non si riuscisse a cambiare
niente. So pure che non ci sono pasticche utili a debellarlo (detto da
uno che si è ironicamente inventato l’alfandranghetina e il lex total
plus – unico conforto la più recente Misericordina di Papa Francesco)
se non lasciarsi – e presto – alle spalle un modo di fare politica che
allarga il fossato tra i cittadini e le istituzioni e che distrugge la
reputazione della classe politica. Come tanti cittadini elettori soffro
molto della riduzione della politica a un gioco delle parti tra robot
messo in scena dai talk show televisivi rispetto ai quali non resta
che seguire l’opzione del meno peggio. Allo stesso tempo rifuggo
troppo dal luogo comune per affermare con nonchalance che è
arrivato il momento di “fare”.
Del “fare” non si può più sentir parlare. Paradossale, perché
contrapposto al “dire”, ma “fare” è pur sempre un verbo troppo
spesso senza sostanza, una parola sempre più inflazionata
ed abusata. La politica è centrata sulle parole, sui discorsi
che diventano ragionamenti, che si aprono al confronto, che
diventano testimonianza, impegno, “presa di parola” in pubblico e
infine leggi. Non ci sono molti altri strumenti per l’azione politica,
oltre le parole e salvo i gesti: gesti non ingessati che temono
l’ovvio e il già detto, il cerimoniale e l’inutile ripetizione, gesti
capaci di generare una qualche sorpresa. Parola e gesti: questa è
la mia unica tastiera. Che ovviamente non prescinde dall’ascolto e
dal senso dell’amicizia. Anche quest’ultimo concetto, per quanto
filosofico o astratto possa risultare, non è altro che l’essere
insieme e il ritrovarsi in una comunità. Nulla di più concreto.


Salvatore Magarò